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Nota– Questo post contiene una serie incalcolabile di citazioni ed è una sfida al fato editoriale. Il testo originale, amputato cercando di rispettare al massimo il senso che mi auguro di aver colto nella lettura, è compreso tra le pagg. 691 e 709 del libro “La fame” di Martín Caparrós, edito da Einaudi. Avrei potuto provare ad usare solo parole mie, ma la parafrasi è un esercizio che non mi è mai piaciuto. E poi mi chiedo a che pro scovare idee geniali, se poi condividerle risulta impossibile.

La fine del viaggio

Fino a ieri pensavo avrei scritto: “la verità è che la conclusione alla quale sono arrivata c’entra ben poco con la mia destinazione”. Oggi, invece, posso dire che la conclusione alla quale sono arrivata potrebbe vedere la mia esperienza dell’Islanda come caso emblematico.

La colpa della fine, comunque, è di un libro. O forse la colpa è solo del suo autore. Dipende se le cose possono avere libertà d’azione. (O forse la colpa è mia, perché sono io ad avere comprato il libro). Caparrós scrive, io leggo e le sue parole mettono nero su bianco i miei pensieri per poi portarli altrove:

  • se quando dico ambiente si legge ambientalismo, che fa rima con ecologismo e con “prima la natura dell’uomo”, allora è il caso che inizi a pensare a un altro nome, perché nel mio ambiente non ci sono solo piante, fiori, ghiacciai e solitudine. Lui lo dice in modo molto meno carino, lui parla degli “ecololò”, come dire una sorta di sottospecie umana che sogna la pace nel mondo a colpi di sedano biologico o aree naturali protette, ma sembra dimenticare il resto delle questioni all’ordine del giorno nell’agenda dell’umanità;

  • oltre a confrontare con quanto è stato, potremmo decidere di fare paragoni con quello che potrebbe essere, perché trovarsi in un mondo migliore, non significa che tutto sia meglio;

  • “sembra una sciocchezza, ma il mito più forte di quest’epoca di cambiamenti incessanti è che non ci sono cambiamenti possibili nell’essenziale, nell’ordine che ordina le nostre vite. […] Adesso, per la maggior parte dei cittadini d’Occidente… il futuro è un presente perpetuo con leggeri ritocchi tecnoecololò: un computer più intelligente, una foresta meno minacciata, un buon lavoro una famiglia un’auto nuova ogni due o tre anni, due o tre vacanze all’anno, cent’anni invece di ottanta, la tranquillità assicurata- grazie alla potenza del mercato. Niente che, in realtà, possa chiamarsi davvero futuro… Niente che guidi passi, fissi itinerari, condizioni vite, giustifichi morti o rischi. Niente che giustifichi investimenti al di là del microscopico ambito personale: il futuro come qualcosa di personale o una minaccia. Il mito dominante: le nostre società non saranno mai troppo diverse perché non ci sono altre possibilità, il capitalismo di mercato con governo eletto e delegato è l’unica forma di organizzazione possibile e durerà per sempre. Per crederci, innanzitutto, bisognava imparare a non pensarsi in termini storici: dimenticare che questo momento è un momento”;

  • “rivendico la fiducia: l’idea delirante che il mondo possa essere cambiato se esiste la volontà sufficiente… Fatico a vivere con questa vita come unica risorsa… non passa giorno che non mi chieda quando tornerà il futuro. E tornare a volere, tornare a fallire- meglio…. E’ duro farsi domande le cui risposte si immaginano irraggiungibili; non farsele è triste”;

  • “Mentre alcuni vogliono sposarsi con chi gli pare, altri vogliono mangiare tutti i giorni. Dove si incontrano o si intersecano ricerche così distanti? Quando c’era una teoria generale del cambiamento si poteva pensare che quel cambiamento, quella società radicalmente diversa avrebbe dato a ciascuno quello di cui aveva bisogno. Adesso non più… Per un paio di decenni i grandi obiettivi ci sono sembrati troppo grandi- e allora abbiamo accettato quelli piccoli: vivere dignitosamente, migliorare il nostro quartiere, prenderci cura dell’ambiente, rispettare le minoranze, sostenere le buone cause. Tutto molto bello, molto valido… Finché, nel 2008, un taglio netto: la crisi… non era possibile che gli Stati più ricchi spendessero tutti quei soldi per salvare i più ricchi. La reazione era rappresentata da una parola che definisce l’epoca: l’indignazione, gli indignati”;

  • “Non mi piace l’idea di indignazione. Mi sembra, in un certo senso, un sentimento elegante, controllato, di chi ha a disposizione alternative… Credo nell’incazzatura. Credo che le questioni che si possono discutere con calma, senza passione, senza incazzature, non sono importanti. Sono significative solo quelle che ti portano a detestare- anche se per non più di un attimo- chi ti dice il contrario. Il problema è cosa fare con la rabbia. Ti diranno: se non ci sono alternative, meglio evitarla. L’ideologia (?) non è stupida: ci spinge a fare quello che facciamo e fornisce argomenti per giustificarlo. Che la rabbia è una stupidaggine perché non può portare a cambiamenti concreti e un po’ alla volta le cose miglioreranno e dobbiamo preoccuparci solo di quello che possiamo modificare. O, se no, indignarsi. Il movimento degli indignati è la quintessenza della versione più attuale di partecipazione politica delle buone intenzioni: la reazione difensiva. […] Reagiamo: ci difendiamo- cerchiamo di difenderci- da tutto questo. Ma non abbiamo alternative da proporre”;

  • “Come trasformare una difesa in un attacco? […] Più che la disperazione, per un cambiamento serio- una rivoluzione?- è indispensabile un’idea… A fare la differenza è un progetto. Una cosa è progettare politiche; un’altra ben diversa progettare desideri. Ma se le politiche non si immaginano come modo di realizzare quei desideri, non sono altro che mera amministrazione della tristezza, della mediocrità”;

  • “Soprattutto: non sappiamo cosa proporre… trovare un modo di proporre- di smetterla di stare sulla difensiva e proporre- che eviti le certezze, che ammetta la fallibilità, che sia capace di dire questo è quello che voglio, non quello in cui credo; per questo vale la pensa di rischiare, anche se forse non ci si riesce. Organizzare progetti senza credenze. Non sappiamo come… E allora? Smettiamo di provarci?[…] Siamo in uno di quei momenti senza progetto. Uno di quei periodi in cui il paradigma precedente si è spezzato, ma non è ancora comparso quello successivo… Sono epoche difficili, leggermente orfane. Era più facile sapere senza dubbi. Ma sono anche epoche affascinanti: pura ricerca. Non c’è niente di più eccitante e di più angosciante della ricerca”;

  • “Il difficile non è ottenere qualcosa che sembra impossibile; il difficile è definire quel qualcosa… Sono a favore dell’impensabile perché è stato realizzato tante volte. Si tratta di capire quale impensabile si vorrebbe e giocarsela al meglio. Un nuovo paradigma è l’impensabile. E’ quello che costituisce la sua difficoltà e la sua attrattiva e la sua difficoltà. E’ quello che vale la pena di essere pensato. Modi, in sintesi, di forzare la distribuzione: che i beni siano equamente suddivisi, che il potere sia equamente suddiviso. Cercare la forma politica che corrisponda a un’idea morale dell’economica– e non la forma dell’economia che corrisponda a un’idea moralista della politica. Detto così sembra un’inezia- e non ne siamo capaci”;

  • “Non è chiaro chi possa pensarlo: tanto meno, chi possa farlo… C’è, comunque, una tradizione del pensiero per l’altro: effetto della preoccupazione per l’altro- che comincia dalla preoccupazione per se stessi: a me personalmente, chi vi parla, per quanto mi riguarda… un mondo così mi sembra una macchina spaventosa, che offende tutti quelli che lo formano e si conformano… E credo sarebbe utile separare l’azione dai risultati dell’azione. Non fare quel che voglio fare per la possibilità del risultato ma per la necessità dell’azione: perché non sopporto di non farlo. E credo che niente sia completamente vero se non lo faccio per una qualche forma di egoismo. E i grandi momenti della cultura avvengono quando l’egoismo di migliaia di persone consiste nel decidere che devono fare qualcosa per gli altri: quello è il loro modo di fare qualcosa per se stessi, il loro egoismo”.

“Allora: pensare a come sarebbe un mondo che non suscitasse vergogna o senso di colpa o scoraggiamento- e cominciare a immaginare come cercarlo.”

Magari non serviva un viaggio per arrivare qui e magari questa conclusione non farà la differenza al mio rientro, non cambierà la mia quotidianità. Penso che ci sono ancora 6 giorni prima di varcare la soglia di casa e che potrebbero accadere molte cose, ma allo stesso tempo non ne sono così convinta: è come se fosse iniziata l’attesa del ritorno per poter provare ad inventare nuovi nomi e nuovi mondi.

Oppure finirò col fare il predicatore.