Fotografia scattata da the Half Hermit a Fjallsárlón, una delle lingue del ghiacciaio islandese Vatnajökull: la fine del viaggio arriva con il ritorno all

“Sapere aude!, diceva, abbi il coraggio di sapere. Sapere è poco- o è diventato il contrario: la zavorra della realtà intesa come unica verità, quella che impedisce di sognare o di desiderare.

Somniare aude.

Desiderare aude.”[1]

Il mio viaggio è finito il 26 Agosto, al giorno 24 di 35.

Ero venuta in Islanda pensando che il luogo che aveva suscitato domande potesse anche fornirmi risposte, ma queste ultime non ci sono. Esattamente come non era lei ad avere le domande, ma solo la forma perché io le vedessi.

Le domande erano personali e chiedevano a me cosa ne avessi fatto dei miei studi in scienze ambientali, di quella prospettiva un po’ a volo d’uccello che spesso sembra trascurare i dettagli e preoccuparsi più che altro dell’insieme, ma che in realtà cerca solo di far combaciare i pezzi prima di occuparsi di decorarli.

Pensavo che per recuperare quella prospettiva fosse necessario occuparsi di temi tipicamente ambientali: il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, l’innalzamento del livello dei mari, gli effetti del turismo sul territorio, la flora e la fauna…e l’Islanda sembrava lo scenario perfetto con i ghiacciai che si sono ritirati negli ultimi anni, il suo essere un’isola con tutto l’oceano del mondo a circondarla, un turismo che si basa per il 99% su quanto siamo soliti definire “natura” e che è esploso negli ultimi anni mettendo all’ordine del giorno questioni che prima quasi non esistevano in un luogo con una densità di popolazione che sembra uno scherzo (3 abitanti per km2? L’Eden per alcuni e l’Inferno per altri).

Poi sono capitata qui, senza filtri abitativi (Duster-ino non me ne voglia) o turistici, scaraventata sull’Isola dopo aver assunto lo stesso colore del suo muschio grazie ai cavalloni marini imbizzarriti da Nettuno, e ho capito che:

  1. l’Islanda potrebbe subire le stesse dinamiche già viste altrove in nome di un presunto progresso. Potrebbe, ma magari no. Oppure sì. Mah;
  2. i temi ambientali vengono affrontati in modo parziale e settario come tutto il resto e questa doppia aggettivazione non voglio mi appartenga, non voglio la si confonda con me.

Islanda

Ci sono processi che si possono ipotizzare, altri che sono evidenti e altri che non sono accessibili in 21 giorni di permanenza con nessuna conoscenza della lingua islandese e nessun titolo per fare domande:

  • vedi parcheggi che crescono in numero da un anno all’altro, strade che si allargano o che da battute diventano asfaltate;
  • vedi campeggiatori dove non dovrebbero essere e macchine dove non dovrebbero essere;
  • vedi che la fiducia nell’onestà a cui fanno appello i biglietti delle persone del posto (“lascia nella cassetta le 500 corone per pagare l’accesso all’esposizione”, “pulisci perché sia come l’hai trovato”) spesso è mal riposta;
  • ti chiedi se il cimitero di gabbiani che è il tratto meridionale della Ring Road è tutto merito della disinvoltura dei guidatori stranieri e, quindi, se la loro affluenza potrebbe essere proporzionale alla riduzione della popolazione di volatili sull’Isola;
  • constati che l’80% delle persone con le quali hai avuto a che fare sono straniere, spesso anche quando si tratta di gestione dei servizi turistici;
  • hai l’impressione ci sia una certa tendenza a rendere qualunque fessura nella roccia meta imperdibile;
  • ci sono campeggi in località strategiche che non sono dimensionati rispetto all’affluenza e altri che sono gestiti come attività part-time, come se non fossero convinti che i turisti potrebbero arrivare.

Poi magari la popolazione islandese è più ricca di un tempo, si sente meno sola ed è felice che le infrastrutture siano migliorate. A me però visitare cascate in processione turistica o cercare di sentire gli scricchiolii del ghiaccio tra i click delle macchine fotografiche fa provare un certo disagio, come se mi sentissi al museo dopo aver fatto 6.000 km per arrivarci e con il microclima ricreato. Bello? L’Eden per alcuni e l’Inferno per altri, con me dalla parte infelice della barricata.

Poi, sia chiaro, un conto è essere di passaggio e altra cosa pensare di vivere qui. Ho incontrato chi ha fatto questa scelta e non ti parla della folla di Agosto, ma della pace del resto dell’anno, della lentezza di una vita che spesso non inizia prima delle 9 e che non ha ritmi affannosi (“non hanno mai servito caffè in Autogrill”- cit. M.S.), insieme all’approssimazione nelle faccende domestiche, alla disponibilità delle persone a darti una mano e alla già citata onestà e alla tendenza a lasciare che le persone facciano la loro vita senza ricorrerle anche se sono star internazionali. Non sono rose e fiori per tutti, dipende con chi parli e dipende quest’ultimo cosa vuole per sé.

Nessuna presunzione di esaustività, ovviamente. Ma, soprattutto, sia chiaro: nessuna delusione da questa terra che ti stupisce a ogni curva, ogni volta che cambi prospettiva, all’uscita dei cunicoli che sembrano le gallerie; quello che avevo trovato qui è ancora qui, ci sono sempre tratti di costa che sembrano sommergibili, colori che neanche la Pantone, scenari che cambiano con le ore del giorno, vapore che ti fa credere di essere su Marte e ghiacciai che ti fanno venire voglia di letargo. Qui io continuo a percepire l’essenziale.

Ma. Cosa?

[1] Citazione dal libro “La fame” di Martín Caparrós, edito da Einaudi.